Libri su Giovanni Papini

1978


Ferdinando Castelli

Volti della contestazione
Strindberg Pèguy Papini Camus Mishima Kerouac Böll

[Capitolo]    Giovanni Papini, l'odissea, pp. 126-206

[Sottocapitolo]    Notizie biografiche, pp. 126-131        
121-122-123-124-125-(126-127-128-129-130
131)132-133-134-135-136-137-138-139-140



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Riportiamo la scheda biografica curata da P. BARGELLINI Dizionario della letteratura mondiale del sec. XX, Roma-Torino, E.P.-S.A.I.E. 1968, alla voce.

«Nacque a Firenze in una povera casa, il 9-1-1881 e morì l'8-7-1956 ivi. Suo padre, ex garibaldino, ateo, massone e repubblicano, era un artigiano con un piccolo negozio di mobili; la madre fece battezzare di nascosto il bambino. «Io non sono mai stato un bambino. Non ho avuto fanciullezza» e fin dai sei anni Papini si ebbe il soprannome di «vecchio». A quell'età già scriveva ambiziose operette. A nove, componeva anche versi, ma solo nel 1896 cominciò a tradurre le sue opere in piombo, anzi a stampare da sé i suoi giornali, con l'amico Ettore Allodoli. Il settimanale La Rivista, il mensile Sapientia col supplemento Il Giglio costituiscono i primi documenti della sua tendenza enciclopedica, capace di passare da un argomento all'altro, politico, letterario, filosofico, artistico e anche faceto.
   Finite le elementari in un «casone altissimo color d'uggia», situato però «nel tuorlo» dell'antica Firenze, passò alle scuole normali per il diploma di maestro, non potendosi permettere il Liceo e l'Università. Anche lì, da ogni parte guardasse, il giovane miope poteva scorgere ancora i segni dell'antica gloria e sognare la nuova. E lì ebbe anche un insegnante d'eccezione, Diego Garoglio, poeta e collaboratore del
Marzocco.
   Insegnò per un anno in un istituto privato e contemporaneamente faceva il bibliotecario al Museo di Antropologia, fondato da Paolo Mantegazza.
   La cultura scientifica e filosofica era ancora positivista, ma ben presto il Papini capì che il «positivismo non basta per chi voglia avere una vita spirituale completa». In quel tempo Enrico Corradini stava formando un giornale nazionalista e propose al giovane



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psicologo e antropologo la redazione del Regno, che uscì negli ultimi mesi del 1903. S'apriva allora l'età delle riviste. Nasceva la Critica di Benedetto Croce, organo e bandiera dell'Idealismo e nasceva il Leonardo di G. Papini, organo e bandiera d'un oscuro e indistinto stato d'animo di giovani insoddisfatti e indifferenti. Da allora resterà sempre costante, in ogni tempo della vita e in ogni punto dell'opera di Papini, l'aspirazione di «agire sul mondo, e sugli uomini», e sempre «in senso innalzante».
   La letteratura, la poesia, la fantasia non erano, né dovevano essere mai esercizio solitario, estetizzante e compiaciuto. Papini sentiva il bisogno di una compagnia. I primi leonardiani furono lo stesso Papini, col nome, non d'arte, ma di battaglia, di Gianfalco, Prezzolini con quello di Giuliano il Sofista, poi Boni, Macinai, e i pittori De Karolis, Costetti, Spadini, Mussini. Momentaneamente, tra il monismo idealistico e quello positivistico, entrambi in «strette relazioni con l'ozio», Papini accettava il pragmatismo. Perciò nel 1904, allorché apparve la
Logica di Benedetto Croce, ruppe qualsiasi tradizione col «celebre accademico pontaniano», preferendo alle teorie tautologiche e filistee dell'Idealismo, la «taumasiologia» o addirittura la «magia» che lo lasciavano battuto e deluso, infinitamente triste della sua condizione di miseria e di impotenza. Ed ecco le pagine del Tragico quotidiano (1906), del Crepuscolo dei filosofi (1906) e del Pilota cieco (1907).
   Né l'anno dopo la collaborazione alla
Voce poteva appagare le ansie di Papini. Per lui — e anche questa sarà una costante della sua vita — la cosa più utile e necessaria dell'uomo era l'anima. E Cultura dell'anima sarà la prima collana diretta da lui, e L'Anima si chiamerà la rivista fondata nel 1911 con Giovanni Amendola. Così Un uomo finito, del 1912, doveva essere il «libro emblematico» del giovane scrittore, un libro di confessione e sconfessione. Gli conquistarono il primo grande successo lo spirito e lo stile della sua sposa, sincera, onesta e parlante, rude e non ruvida, e qualche volta beffarda, in qualche punto violenta, mai però crudele. «Quasi tutti gli scrittori italiani» disse poi «hanno scritto cose che non sentivano in una lingua che non parlavano». Egli, invece, scriveva una lingua parlante e scriveva di cose che sentiva. Uomo finito, si dichiarava, perché non era riuscito ad essere un uomo infinito. Era alla ricerca di una certezza, di una fede, di una verità «anche piccola, anche meschina ma... che mi faccia toccare la sostanza intima del mondo».


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L'irruzione di G. Papini nel campo della letteratura fu come un savonaroliano «bruciamento della vanità». Magro, pallido, spiritato, aveva il piglio e il tono più dell'invasato che dell'ispirato. Il giovane fiorentino si mescolava alle letterature straniere con una foga, una turbolenza che lo rendevano come un Pilota cieco, in cerca dell'Altra metà (1911), disperato della Vita di nessuno (1912). Le sue pagine colavano Parole e sangue (1912); le sue idee invano frugavano in Ventiquattro cervelli (1912); non trovavano che Buffonate (1914). Papini bestemmiava nelle Memorie di Dio (1911), s'illuderà della propria Maschilità (1915), si faceva giustiziere nelle Stroncature (1916).
   Nel 1913. staccatosi dalla
Voce, fondò con Ardengo Soffici Lacerba nella quale la disperazione dell'uomo che non voleva finire giungeva al parossismo: «o ammazzarsi o combattere».
   Ammazzarsi per Papini non sarebbe stato possibile. Amava troppo la vita e sempre più l'avrebbe amata, fino all'ultimo, anche quando gli si ridusse a un lucore dentro il pozzo murato del corpo paralitico. E anche questo amore della vita in tutte le sue manifestazioni fu una componente del suo carattere e della sua poesia. Così la guerra, per i Lacerbiani, era un modo di «agire in senso innalzante» obbligandoli a un esame di coscienza. L'articolo blasfemo su Gesù Cristo rientrava nello spirito e nel sistema. L'incendiario sottoponeva a prova, con fatica iconoclastica, il «conformismo» - tradizione, patriottismo, devozionismo. Eppure poesia, patria, fede furono, dopo la guerra, i tre ideali ai quali Papini si serbò sempre fedele, a rischio di apparire egli stesso retore e conformista.
   Per le sue menomazioni fisiche, alla guerra partecipò solo dalle colonne dei quotidiani rivelandosi un «
elzevirista» efficace. Nel 1917, trasferitosi a Roma con la moglie e le due figlie, lavorò alla redazione del Tempo. Ma Papini rimpiangeva l'aria frizzante della sua Firenze e la libertà agreste. Fu la moglie a proporgli di abbandonare la pur fortunata vita giornalistica per ritirarsi a Bulciano. Colà, d'impeto, scrisse uno dei suoi più clamorosi e universali successi, la Storia di Cristo (1921).
   Era il libro della conversione. «L'odio, talvolta, non è che amore imperfetto». Il ritorno alla fede non era dovuto né a spossatezza, né a pigrizia, perché l'autore aveva «veduto che Cristo è tradito, e, più grave d'ogni offesa, dimenticato». Donde «l'impulso di ricordarlo e di difenderlo». Era una nuova avventura, nella



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quale si lanciava a capofitto, ma Papini sentiva che cominciava una «vita più difficile e un obbligo più faticoso». Tornò alla casa del Padre sfidando critiche e dileggi, e tornò solo, con la sua anima e la sua penna.
   Nel 1896 Papini aveva incontrato Domenico Giuliotti che ora lo incitava alla lotta sotto l'insegna della Croce, «contro corrente». Era proprio quello che lo scrittore cercava. Sotto la sua spinta dette mano all'antilluministico
Dizionario dell'orno salvatico, che, nell'intenzione dei due «cattolici cannibali», doveva essere una specie di enciclopedia reazionaria. Il primo volume non ebbe successo. Si cominciò a sospettare non della sincerità della conversione, ma della legittimità dei mezzi per la polemica. Erano lecite riserve. Convertito sì, ma portato dalla sua natura a un cristianesimo irruento. Papini assegnò alla riconquistata fede il compito urgentissimo della certezza da imporre anche agli altri, in maniera assoluta, drastica e addirittura violenta. Irruenza e irascibilità che qualche volta portarono Papini oltre i cigli di quella verità e di quella dottrina che egli intendeva difendere.
   Nella sua ansia di essere «maestro», e non solo di stile letterario, si dedicò quindi all'opera di appassionato apologeta, con forti contrasti di luce e d'ombra. Nacquero così il
Sant'Agostino (1930), Dante vivo (1933) e i tanti volumi che raccoglievano i suoi articoli, da Gli operai della vigna del 1929 a Santi e poeti del 1948 a La loggia dei busti del 1955. Nessuno scrittore italiano poteva vantare una uguale diffusione delle proprie opere, a tutte le latitudini e lungo tutte le longitudini.
   Nel 1929 tenne a battesimo un'altra rivista,
Il Frontespizio, dove continuò, intensificandola, la lotta contro l'imperante monismo idealistico. Il suo linguaggio aveva un'efficacia umana da far passare inosservate le crepe dottrinali.
   Le tendenze di Papini trapelarono dai suoi libri più originali, come
Gog (1931), diario di un barbaro milionario maniaco. Gog era un giudizio particolare sul mondo moderno - negando o rifiutando il cristianesimo, tentava le più disperate e ridicole esperienze. La sconsolatezza si aggravava nel Libro nero (1951). Papini era impaziente di scorgere, sulla terra, l'attuazione del Regno.
   Intanto era passato sull'Italia l'oscuro nembo della seconda guerra mondiale, durante la quale egli aveva sofferto per sé e per gli altri. Con rinnovato fervore fu allora accanto a un gruppo di giovani che redigevano una rivista dal titolo quasi apocalittico
L'Ultima,


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nella quale Papini riversò la sua sempre risorgente disperata speranza. Come venticinque anni prima aveva chiesto il ritorno dell'Uomo-Dio, così ora la sua «irruente temerità» gli fece apparire augurabile una seconda Pentecoste. Forse presentiva che avrebbe chiesto anche per il Diavolo l'attuffamento, non nella ghiaccia infernale, ma nel fuoco dell'infinita carità divina. Egli vedeva il bello e il tentatore come figura isolata, più vittima che nemico, più da compassione che da condannare, dimenticando, nell'empito del suo generoso sentimento, qual nodo sia il problema del male nella speculazione cristiana. Ma il suo era «un sentimento dell'animo», e questo «non è e non può essere un'eresia».
   Nel Diavolo Papini si presentava più uomo di fantasia e di sentimento che di dottrina, più poeta che teologo.
   La poesia del Papini è nella gioia dell'essere e nella bellezza della vita: una gioia non futile e superficiale; una bellezza non labile ed esteriore: quel che di sano, di schietto, d'onesto è rimasto nel mondo, il desiderio di non morire. «Io voglio proprio questa vita disgraziata, scontenta, malinconica, triste — questa vita dolorosa». E lo stesso motivo è ancora espresso dall'ultimo Papini delle
Schegge, paralitico, cieco, muto, ma che provava ancora la felicità dell'infelice. «Stamani» avrebbe potuto ripetere a ogni pagina «era una di quelle giornate che se fossero sempre così sarebbe peccato morire».
   Chi giudicasse Papini soltanto dai suoi umori neri si troverebbe dinanzi a contraddizioni urtanti. A guardar bene anche i suoi mutamenti spirituali e intellettuali furono guidati non tanto dal raziocinio quanto dal sentimento, in cerca di «un'infinità d'amore» che doveva fatalmente deluderlo. Soltanto negli ultimi giorni della sua vita la sofferenza più alta, la grande infelicità gli provocò la piena felicità. E nel dolore accettato, finalmente, conquistò la serenità. Aveva ottenuto da Dio «la grazia, nonostante tutti i miei errori, di giungere all'ultimo giorno con l'anima intera».
   La conversione non gli attutì né gli placò l'amore scontroso ma sincero per l'Italia. Di due amori ne fece uno solo, accomunando spesso cristiani e italiani nel rimprovero d'esser piccoli, tiepidi, indifferenti e noncuranti del loro nome glorioso. Nel 1915, come tutti i suoi amici lacerbiani, era stato interventista. Nel 1919 con Ardengo Soffici reduce dal fronte fondò
La vraie Italie, una rivista indipendente che aveva lo scopo di far conoscere meglio l'Italia in Europa. Fu un pioniere dell'europeismo, in tempi non propizi,


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tanto che la rivista ebbe vita breve. Dopo il 1929, dopo cioè la Conciliazione e il Concordato, aderì al fascismo. L'aperta fedeltà alla Chiesa lo rese sospetto ai politicanti laici e agli statolatri idealistici, che cercarono in ogni modo d'impedire o di ritardare il suo ingresso all'Accademia d'Italia, accusandolo d'essere «servo del Vaticano». Per sette volte fu rigettata la sua candidatura, che peraltro Papini non aveva mai posto. Nonostante ciò, quando, tardivamente, giunse la nomina, non la rifiutò con rancore, ma l'accettò con umiltà, come aveva accettato, dopo molte insistenze, la presidenza del Centro Nazionale di Studi sul Rinascimento. Si consumò l'ultima scaglia di luce sulle schede del Vocabolario, mancando a tutte le cerimonie d'onore, ma sempre presente alle adunate di lavoro.
   Nel 1944, mentre i tedeschi scavavano, intorno alla sua casa di Bulciano, appostamenti e trincee, nel momento più buio e doloroso della sua vita, gli ribalenò l'idea de
Il Giudizio Universale: «tutte le mie risorse e riserve di poeta, di pensatore, di credente, di moralista, di storico, di uomo vissuto, tento di spendere in questo libro gigantesco e tremendo».
   Tornato a Firenze, collaborò con
L'ultima e scrisse le Lettere agli uomini di Papa Celestino Sesto (1946); riandò, con rasserenata visione, alla sua «vecchiaia» di fanciullo, nel Passato remoto (1948), scrisse la Vita di Michelangelo (1949); tornò, nel Libro nero (1951), alle manie strambe e tragiche di Gog. Con Le pazzie del poeta riprese le fantasie allegoriche e rivelatrici. Di tanto in tanto aggiungeva alle 4300 cartelle del Giudizio qualche nuova figura, ne sconvolgeva l'ordine, ne modificava il disegno.
   Ma già una misteriosa malattia lo invadeva. Lo spirito più sveglio, più alacre, più ardito veniva ad essere come murato dentro il corpo. Non sbigottito, non intristito, non spaventato accettava la quotidiana morte con intrepida fiducia nella vita. Rarissimo, se non addirittura unico esempio di un poeta che, dinanzi alla morte, non sentisse la vanità della poesia, d'un letterato che, ridotto agli estremi, non avvertisse la nausea della cosiddetta cultura».



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